Il risvolto della medaglia. O dei pantaloni.

Sarebbe dovuto arrivare questo giorno.

Dopo i leggings e gli shorts, questa cosa del risvolto ai pantaloni, mi fa salire la febbre più di una notte brava passata in giro a cantare L’inno del corpo sciolto.

Non sono contraria tout court, mi appello solo al sacro vincolo della creanza.

Ora, premesso che ognuno può vestirsi come gli pare, che non mi piacciono i bragaloni, che dev’esserci equilibrio tra larghezza e lunghezza e che sì, di nuovo, ognuno è libero di sventolare il proprio cattivo gusto come vessillo di vita eterna e libertà ancestrale, io dico no a questa follia da risvolto.

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Si selfie chi può. O di quelli che se li fanno in bagno.

Era il 23 settembre e, neanche alle 10 di mattina, mi arriva su Messenger una proposta indecente. A farmela Veronica, autrice dell’acclamato blog Fuori Logo, che se ancora non lo leggete, dovete farlo subitaneamenDe.

Io adoro Veronica. Mi piace oltremodo la sintonia cazzona che più volte ci ha portato ad investire profiQuamente svariati quarti d’ora al limite tra il ci siamo o il ci facciamo. Cose che solo menti arricciate e baldanzose riescono a concepire per sfuggire al logorìo della vita monotona. E a noi riesce discretamente bene, devo dire.

Una proposta indecente, dicevo.

Guardate un po’ voi.

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WhatsApp: guida pratica contro il fanqù terapeutico.

Chi di noi non usa WhatsApp? Pochi forse, pochissimi. E questi pochi, certamente, non lo usano pensando di salvarsi da una bella gastrite nervosa con triplo reflusso gastroesofageo avvitato a doppio nodo sulla faringe.

Perchè sì, WhatsApp è una cosa meravigliosa, ci mandiamo messaggini vocali stupidi, abusiamo allegramente e sfacciatamente di emoticon, invadiamo le conversazioni con plotoni di foto e video assolutamente imperdibili, ma nasconde delle insidie non proprio irrilevanti.

Come l’essere umano che lo utilizza.

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Il peso della dignità.

Non era questo il post che volevo pubblicare oggi. Non erano queste le parole sparse qua e là nelle diverse bozze. Non erano questi i pensieri che avrei voluto fluissero nel mare magnum delle mie intenzioni.

Eppure eccoli qui. Prepotenti come il mare, furibondi come il vento, rumorosi come le foglie secche che mi piace calpestare.

Non è questo il target del blog, la nicchia a cui appartengo, come si dice nel gergo della comunicazione del web, ma chi se ne frega. Questa cosa è molto più importante, ed essendo questa casa mia, posso riservarmi il lusso ed il beneficio di raccontarmi senza riserve.

È successa una cosa atroce.

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Misteri irrisolti: storie di lenzuola con gli angoli.

Sono sicura che gli autori di Voyager non me ne vorranno se oggi affronterò un argomento che, all’incirca settimanalmente, lede l’equilibrio psicofisico di ogni essere umano che adempie a questo compito: rapportarsi al mistero delle lenzuola con gli angoli.

La piacevole sensazione di conforto che si prova quando la nostra quotidianità si alimenta di piccoli e grandi gesti legati al vivere nella pulizia e in un ordine apparente, viene messa a dura prova ogni qualvolta sventoliamo nell’aere le nostre beffarde lenzuola.

A nulla valgono gli insegnamenti dei plotoni nonneschi pronti ad impartire lezioni di vita e a dispensare preziose tecniche e tattiche su come librare tra le quattro mura le suddette lenzuola con la stessa fascinosa magia di David Copperfield. A nulla serve trasformarci nell’ispettore Gadget e allungare braccia e gambe per rendere più agevole la missione.

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