Blue Tangos

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Ho molti pensieri tristi che si ballano, per questo Giacomo, quando gli dissi che era in vendita la casa sopra il Blue Tangos, fece il possibile per accontentarmi.

Non sono una persona facile da amare, anche se il più delle volte penso che sia più difficile non amarmi. Molte più volte invece penso di essere proprio io quella incapace di amare che, a conti fatti, è un bel modo per vivere una vita dignitosamente di merda senza pensare troppo alle implicazioni che tutto questo amare senza provare amore offre generosamente in dono.

La zona del Blue Tangos non era bellissima e anche parecchio distante dai nostri uffici. Ma chi non ama è spesso capriccioso, e io lo ero tantissimo. Consapevole anche del fatto che avevo capito di non amarlo più e in qualche modo volevo fargli pagare un paio di colpe a caso. Senza fretta.

Non sono cattiva, però. E amo il tango.

Il Blue Tangos era un bar, di giorno, crocevia di gente di frontiera e vite sgualcite, occhi gonfi di sonno e caffè bruciati proprietari di fondi mai veramente chiari. Avrà secondo voi un senso la storia dei fondi di caffè? Toccare il fondo, la palla che rimbalza, scuote la terra che si apre e lancia nuvole di polvere. Forse il futuro è qualcosa di molto simile a questo.

Ogni tanto scendo anche io a bere il caffè lì. Mi fermo a guardare la vecchia barista che fa l’oca con qualche giovane zingaro di passaggio e suo marito che passando le tira una pacca sul culo e le chiede di non farlo più che poi la gente parla. Spesso c’è una mamma che aspetta sua figlia adolescente, e mentre la aspetta, aspetta anche il suo amante, in un rito che si perpetra da anni, pare, solenne e beffardo, come i più grandi bluffatori.

Vado a bere il caffè lì quando sono stanca e ho bisogno di staccare il cervello pezzo a pezzo e incollarlo poi con la posa del caffè.

Di notte, gli scantinati del Blue Tangos si trasformano in una milonga. L’ho scoperto solo molto tempo dopo.

Ero stata in una milonga solo una volta, insieme a un’amica ballerina di tango, durante un viaggio in Argentina. Era una sala grande, o forse a me sembrava così, i tavoli erano disposti attorno alla pista da ballo, i pavimenti liscissimi, ché bisogna scivolare e volare, lasciarsi afferrare e cadere. Ma scivolare e lasciarsi afferrare, soprattutto.

La milonga è verbo, che diventa confusione, e fusione e litigio, è il ritmo ricco e sontuoso della gente povera e disperata. Quelli che infilano le unghie nell’altro quando non possono tenersi più da nessuna parte.

Hay milonga de amor.

Soprattutto afferrare. Mi dicevano i milongueros.

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Tornata in Italia, nella mia casa sopra il Blue Tangos, ho chiesto alla vecchia barista che faceva l’oca con qualche zingaro di passaggio, di poter partecipare ad una serata.

“Tu non balli, non puoi venire.”

Dopo qualche trattativa, sono riuscita a scucirle un si.

Non mi facevo bella da un po’, a Giacomo non interessava e a me non interessava farlo per lui.

Indosso un abito nero, senza calze, un paio di vecchie décolleté, uno scialle, sciolgo i capelli. Mi guardo allo specchio e metto il rossetto rosso.

Da quella sera non ho più smesso di mettere il rossetto rosso.

E di ballare il tango con Josemaria.

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Photo credits Wok Photography

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